Nadia Murad/Basee Taha (1993)
Attivista yazida per i diritti umani.
Nadia nasce nel villaggio di Kocho, nel Sinjar, nel nord dell’Iraq. Cresce in una famiglia contadina yazida. Quella yazida non è solo un’etnia, ma una religione con tradizioni e cultura assestanti che derivata da un antico culto preislamico del popolo curdo e conta circa 700.000 fedeli. La regione originaria di questa comunità è nell’Iraq nord occidentale, con capitale Sinjar, vicino al confine siriano. La religione yazidi è precedente a ebraismo, cristianesimo e islam, si crede addirittura che sia la più antica al mondo. È un insieme di zoroastrismo, islam, sufismo, cristianesimo, gnosticismo e mitologia mesopotamica. Per molti versi non dissimile dai culti prescristiani delle nostre antiche società contadine, dove grande importanza avevano il Sole e il susseguirsi delle stagioni. Sono ancora fortemente legatə alla natura. Da sempre la comunità yazida è oggetto di persecuzioni feroci da parte dei fanatici delle religioni che verranno dopo la loro. In seguito ai 74 genocidi subiti nel corso dei secoli, sono statə dispersə fra Siria, Turchia, Iran, Armenia etc.
Per ovvie ragioni, vengono descrittə come un popolo schivo e riservato.
Nell’agosto 2014, i tagliagole dello Stato Islamico, fanno irruzione nel villaggio di Nadia. Il loro obiettivo è sempre lo stesso, il genocidio. Tutte le case vengono date alle fiamme, per stanare lə civili. Seguendo le orme dei nazisti, dividono i maschi adulti da donne e bambinə. I primi, come i suoi fratelli, saranno uccisi, mentre i bambini più piccoli verranno arruolati e/o mandatə ai lavori forzati, mentre donne e bambine è diventeranno sabaya, schiave sessuali. Questa sarà la sorte di Nadia, nel fiore dei suoi ventun’anni. Le sabaya vengono quindi condotte a Mossul dove, private di ogni diritto e dignità, saranno ridotte a merce da vendere e scambiare per soddisfare i loro padroni.
Dopo tre mesi di prigionia, uno dei rapitori di Nadia dimentica di chiudere la porta della sua cella a chiave. La ragazza non ci pensa un secondo e scappa. Nadia corre, più veloce che può, sebbene stremata dalle torture e trova rifugio presso una famiglia della zona. Riacquistate un minimo di forze, raggiunge il campo profughi di Duhok, nel nord dell’Iraq e da lì parte per un viaggio per la Germania. Arrivata in Europa non potrà dimenticare le sue compagne di sventura e l’orrore della schiavitù e da allora si impegnerà per dare voce alla questione.
Nel novembre 2015, la resistenza curda (pkk, ypg/ypj etc.), fra cui lə partigianə yazidə del Sinjar Resistance Units, liberano il Sinjar dallo Stato Islamico. Nello stesso anno, Xate Shingali, famosa cantante folk yazida, forma un battaglione femminile chiamato Sun Girls, formato da ex schiave yazide scappate dall’ orrore fondamentalista.
Il 16 dicembre 2015, al Consiglio di Sicurezza Onu, Nadia aprirà, per la prima volta nella storia dell’organizzazione, il dibattito sulla tratta di esseri umani.
Diventata ambasciatrice Onu, parteciperà e organizzerà campagne di sensibilizzazione sulla tratta di persone e rifugiatə .
Molti premi le verranno conferiti per il suo impegno: Premio Václav Havel per i diritti umani, Premio Sakharov per la libertà di pensiero e nell’ottobre del 2018 riceve, insieme al medico africano Denis Mukwegw, il Nobel per la Pace.
Nadia va avanti nonostante le minacce di morte.
Per una strada che io personalmente non sceglierei, quella delle istituzioni, ma questo non vanifica di certo né la genuità del suo impegno né la sua lotta.
Molti articoli che ho letto su di lei hanno toni ipocriti, paternalisti e sono scritti per avvalorare il giustizialismo o l’islamofobia. Inoltre un’attuale degenerazione del femminismo donnista si serve spesso della questione per fomentare moralismi sessuofobici a discapito dell’autodeterminazione del sexwork equiparandolo alla tratta di esseri umani. Dubito profondamente che Nadia lotti per questo, credo piuttosto che sia mossa dall’altruismo verso chi è ancora schiavə. Credo che a Nadia la libertà acquisita lontano dal genocidio non basti. Nadia sarà libera, quando liberə saremo tuttə e il titolo della sua autobiografia, L’ultima ragazza, e queste sue parole lo confermano: